All’anniversario dell’uscita dell’album The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, il 1° Marzo 1973,
appare importante ricordare, al di là del successo commerciale, il valore intrinseco della musica come cultura, ideologia e immersione in un suono, come un atmosfera e mai un mero accompagnamento di sottofondo o il suggerito dell’algoritmo da aggiungere alla playlist a pagamento.
Disco eternamente popolare con più di 15 milioni di copie negli Stati Uniti e altri 45 milioni nel resto del mondo è stato un vero colosso del classic rock, e resta nella lista tra i dischi più venduti di tutti i tempi, rappresentando il picco artistico della carriera del quartetto inglese.
Queste cifre del successo, quando i dischi si andavano a comprare nel negozio e se ne sfogliavano le copertine ( e che copertine, Hipgnosis Studio con riferimento all’esperimento del prisma di Newton), si riferiscono ad un opera con una scrittura incredibilmente ricca e « con un tema vero e proprio » come ha riconosciuto lo stesso Roger Waters. Un disco infatti con una fluidità unica, come se le canzoni fossero funzionali all’insieme. E ci vuole una grande maestria per creare un album che abbia quella coerenza e quella fluidità: in altre parole un concept album, un opera d’arte.
E, se dopo 73 anni oggi ci si può ancora concedere di ascoltarla e far riemergere ancora le stesse sensazioni, vuol dire che non si parla di tormentoni, non sono canzoni d’intrattenimento ma appartengono alle cose che rimangono, resistono, oltre il tempo.
Si racconta delle pressioni e delle difficoltà della vita da musicista ma poi, Dark Side of the Moon parla di ricchezza (Money), conflitto e lotta con l’eterno della scelta (Us and Them), follia (Brain Damage), esistenzialismo e il tempo che passa (Time) e la morte (The Great Gig in the Sky).
Come racconta Kirk Hammett dei Metallica « Non avevo mai sentito nulla che avesse un suono così particolare e ultraterreno».